Sabato scorso, all’Ariosto, il sindaco parlava dell’urgenza di una cultura da contrapporre alla cultura dell’odio. Pare impossibile, qui, perdere tale battaglia. Ma si può. Come? Anche continuando a usurare e svuotare di senso parole belle e importanti. Come? Con un loro uso reiterato, creando un fastidioso effetto demagogico, avvertito anche dal direttore della Gazzetta. Esempio: se a Reggio si promuove un brand come Bellezza, sicuri che a Roma, Parigi o Parma nessuno sorrida? Conserviamo il senso di realtà. Dire bello invece di brutto, buono invece di cattivo, non basta a vincere. Se lo crediamo, siamo ingenui e provinciali.
Eppure, a dispetto del titolo La cultura non starà al suo posto, sabato, la relazione dell’assessore alla cultura è stata una mappa concettuale reggiocentrica con ogni casella al suo posto: cultura, bellezza, teatro, educazione, fragilità, casabettola, museo, disabilità, contemporaneità, alta velocità. Di tutto, di più. La cultura sei tu, chi può darti di più? Questi gli spot ideologici di riferimento. Annalisa fa quello che sa fare e lo fa al meglio. Grazie. Le voglio bene. Nelle sue slide è prevista addirittura la presenza della critica creativa e costruttiva: inglobati a sistema pure possibili dissensi, perplessità, criticità. Stupefacente.
Mi riprendo dall’ubriacatura di parole in uno dei gruppi ristretti di decantazione post-sbornia sul marketing territoriale. La coordinatrice raccomanda: “Progetti fattibili”. “Budget a disposizione?”, chiedo. Risposta non pervenuta. Allora, mentre al mio tavolo si parla appassionatamente di identità reggiane, penso: “Per fare l’Arena Campovolo o una stagione al Valli, o invitare qui il Living Theatre, però, mica c’è stato tutto ‘sto progetto partecipato. E allora, adesso, in 4/500, ‘sta partecipazione alternata evocata come valore ancora prima di generare qualcosa, cosa è? E quanto vale, in euro? Non serve saperlo, per stendere un progetto vero, serio, fattibile?”
Teniamo i piedi a terra. Non confondiamo passioni con competenze. Animazione, letture volontarie, giornate di sole, feste di quartiere, hobbistica varia con proposte culturali nazionali. E soprattutto: uso modico e pudico di belle parole. Per evitare diabete retorico. E perché questa nostra terra, alcune parole belle, non tutte, le ha incarnate: con i fatti, e la vita. E meritano rispetto e manutenzione vera e accurata. Una cosa è pronunciarle a fianco della Segre, un asilo o una lapide. Un’altra, senza. A raffica. Il significato cambia. E lo decide chi ascolta, non chi parla. Come scoprì già Alice, bambina, attraversando lo specchio.
Articolo pubblicato sulla del 12 Febbraio 2020