Mia prefazione al libro di Linda Magnoni “Lenin nell’era dei millenials“, Edizioni Terra Marique, 2018
Al di fuori dell’utero ideologico
La mela della Apple. L’immagine della Madonna. La cantante Madonna. Il logo della Samsung. Quello della General Electric. Quello del McDonald’s. La maglietta del Che. La
virgola della Nike. Il simbolo della Bmw. Nulla si crea, nulla si distrugge: tutto si ricicla.
Nostalgia. Ostalgia. In questo libro l’autrice percorre con maestria e puntualità il viaggio di un’icona principe del Novecento: il busto di Lenin. Quando era ancora il potere della storia a suggerirci e imporci immagini, non il potere e la storia di potere dei mercati.
Ci sono oggetti, infatti, in vendita o no, che oltrepassano la Storia ed entrano nel nostro immaginario. Nella nostra identità più profonda. Ne fanno parte. Poco importa se la Storia cambia corso. O viene riletta. Il simbolo rimane. Nel bene. Nel male. O al di fuori da entrambi. È il mondo in cui viviamo oggi: abbiamo nostalgia di una caramella che mangiavamo da bambini e ora non è più in produzione, magari. O di un telefilm che ormai non trasmette più neppure la Tv.
Tutto scompare, resta la sua impronta: l’icona.
Svuotata da qualsiasi significato automatico.
Anche se partorita da un utero ideologico ben riconoscibile, l’icona resta intatta. Indistruttibile. Fissata una volta per tutte nella nostra memoria: perché fissata a quel particolare momento della nostra vita, magari.
Ad essa si legano forme nostalgiche più o meno sentimentali.
Cosa sono? Legami con quelle ideologie? No. Solo simpatie per quei legami. Per la nostra finitezza.
Sorridiamo di fronte al pensionato che si prende cura del busto di Lenin di Cavriago. Ma non possiamo fare a meno che prendere atto dell’importanza e della bellezza di quell’atto: il prendersi cura di. Anche se si tratta di un qualcosa ormai fuori dal mondo. Anche noi saremo come lui, prima o poi.
L’icona, così, è diventata logo. Non è più legato a una Storia, a un’ideologia: è qualcosa che viene prima e dopo al tempo stesso. Siamo noi che moriremo.
Per chi abita a Cavriago il busto di Lenin non è solo un pezzo di storia, non è solo un cimelio ormai largamente privo di connotazioni politiche, ma è un luogo geografico ben preciso del proprio Paese, una parte del cuore.
La percezione del monumento viene metabolizzata, sentita come familiare: non potrebbe essere altrimenti.
I detrattori dei simboli di Lenin, a ben pensarci, diventano i primi artisti. Più o meno consapevolmente.
Se Duchamp ha fatto i baffi alla Gioconda, qualche artista inconsapevole fa i baffi a Lenin ricoprendolo di letame o pitturandolo di giallo vaticano.
Chi, a torto o ragione, è stato immesso nell’immaginario individuale e collettivo, non può più essere cancellato con un semplice colpo di spugna. O meglio, anche la sua cancellazione diventa un modo per rinominare quel nome, quell’icona. Non stiamo più parlando di Lenin. Stiamo parlando del tempo che passa e della nostra morte.
Il volto di Marilyn Monroe. Il simbolo di Wikipedia. La Gioconda. Il logo di Google. La bottiglia della Coca-Cola. Il logo di Amazon. La Pantera Rosa. I personaggi di Walt Disney. La croce celtica. Un cuore trafitto. Il logo di Microsoft. Il logo dell’IBM. Quello della Toyota.
Più si cerca di cancellarla, più l’icona che vogliamo cancellare, inspiegabilmente, riappare: proprio nell’atto della cancellazione.
Non resta altro che trasfigurarla. Darle nuova vita.
E, come spiega bene questo libro, così facendo stiamo già parlando di arte e di storia dell’arte.
“Il busto che parla: la voce di Lenin” – Installazione/performance di Giuseppe Caliceti, Cavriago, 2 Settembre 2017
“Il busto di Lenin” – Romanzo di Giuseppe Caliceti, Sironi Editore, 2004