I nodi vengono tristemente al pettine. Le disastrose strategie della politica scolastica e universitaria italiana messe in atto negli ultimi anni stanno dando i loro cattivi frutti. Negli ultimi dieci anni si è registrata una diminuzione di iscrizioni dei 19enni nelle Università italiane: meno 50 mila iscritti. Un dato eclatante. Salutato con stupore – un po’ vero, un po’ falso – dalla stragrande maggioranza dei media italiani. Con tanti opinionisti che si chiedono, più o meno seriamente, il perché di questa debacle.
In realtà è fin troppo chiaro a chiunque si occupi minimamente di scuola che questa è la logica conseguenza di quanto si è fatto (male, o malissimo) fino ad ora. Togliendo il valore legale ai titoli di studio. Sopprimendo buona parte delle borse di studio. Rincorrendo con dieci e più anni di ritardo un modello anglosassone che negli Stati Uniti e in Inghilterra è già stato messo fortemente in discussione. Parlando a vanvera di selezione e meritocrazia solo per tagliare massicciamente sugli investimenti. D’altra parte, l’Italia è l’unico Paese occidentale che, di fronte alla crisi, ha deciso di non investire ma di tagliare drasticamente sulla ricerca, l’università e la formazione. Una politica scolastica vecchia, da Paese vecchio e agonizzante che non ha nessuna fiducia in se stesso e nel proprio futuro. Le cause del calo dei laureati e delle immatricolazioni? Le tasse sempre più onerose che in tempi di crisi pesano notevolmente sul budget familiare – la famosa classe media è ormai quella dei nuovi poveri). I mancati fondi per finanziare le borse di studio. Ma soprattutto l’imporsi di quell’ideologia per cui lo studio non serve, proclamato con diverse sfumature da tanti politici. Così, se la laurea non è più indice di sicurezza lavorativa, non ha quindi senso investire ulteriore tempo sugli studi.
I dati diffusi dal Consiglio Universitario Nazionale parlano del 17% in meno di immatricolazioni. Anche il numero di laureati è ben distante dalla media Ocse: solo il 19% dei giovani nella fascia d’età 30-34 anni ha una laurea, contro una media europea che si attesta al 30% (rilevazione al 2009). L’Italia nel 2012 nella classifica Ocse occupa il 34esimo su 36. Ma i governi che si sono succeduti hanno saputo solo aggiungere tagli ai tagli, diminuendo in modo drastico l’offerta formativa: aboliti oltre 1000 corsi di laurea, scomparsi un centinaio di corsi tra laurea triennale e specialistica; diminuiti anche i professori; la media Ocse è di 15,5 studenti per docente, in Italia le media è 18,7; e le spese superano i fondi. Insomma, si sta andando allegramente verso il baratro. L’idea è quella di sempre: fare cassa maledettamente e subito, disperatamente, senza nessuna visione di investimento e di crescita nel futuro.
I responsabili di tutto questo? Una classe politica vecchia ed egoista. Ma anche un’università incapace di rinnovarsi dove permangono clientelismi atavici. E’ il risultato di un sistema scolastico costruito su misura di un mercato del lavoro e nient’altro, quando il mercato del lavoro non c’è o è latitante. Ma tante ragazze e ragazzi abbandonano o decidono di non iscriversi più all’opportunità anche perché l’università appare vecchia e vedono che la formazione passa da canali esterni ad essa: pensiamo a tutto il ritardo del nostro sistema universitario rispetto alle tecnologie e alla formazione informatica.
(il Manifesto – 2 Febbraio 2013)