Ventisei alunni. Li ho visti sparire dai banchi di scuola un po’ alla volta, dal termine delle vacanze di Natale a oggi. Tamponi. Vaccini. Negativi. Positivi. Ma se sono passate più di 48 ore da quando è risultato positivo, il bambino può venire a scuola? O non può? Ma se tu, mamma, tieni a casa da scuola tuo figlio o tua figlia perché ha la febbre e i primi possibili sintomi da Covid e l’Usl ti dà l’appuntamento per il tampone dopo tre o sette giorni, passano senz’altro più di 48 ore da quando era a scuola, dunque? Non si è ancora capito bene.
Intanto si parte con la Did, la didattica integrata: faccio lezione contemporaneamente ai bambini in classe e ai bambini collegati via web su classroom che compaiono da casa sullo schermo della LIM. Gli alunni in classe guardano più i loro compagni nello schermo che me. Va bene così. La preside l’ha ripetuto anche nell’ultimo collegio docenti: bisogna essere flessibili.
Insegno da quasi trent’anni: ecco, non c’è lavoro più flessibile di questo. Faccio fare esercizi un po’ a chi è a scuola e un po’ a chi è a scuola senza andare a scuola, ma sta davanti al computer solo qualche ora al giorno. I giorni passano veloci. Sono sempre meno i bambini in aula. Metà a casa, metà a scuola. Più di metà a casa e gli altri a scuola. Rimaniamo in 16, 13, undici, otto. Ma di quelli a casa solo la metà si collega col computer: prima le famiglie devono fare domande, esibire documenti, attendere risposte della segreteria dell’Istituto comprensivo, poi attivarsi. Sempre che ne abbiano la possibilità. Alcuni non ce l’hanno. Altri non hanno a casa i genitori ad aiutarli. Altri, i disabili, sono i più penalizzati, lasciati spesso a se stessi davanti allo schermo finché non si stancano.
Alla fine l’Usl comunica alla scuola che per la mia classe può iniziare la DaD: Didattica a Distanza. Quest’anno si fa a scuola: minimo 15 ore a settimana. Tutti gli alunni via web. Quattro ore al giorno. Con ore che durano 45 minuti. Tre ore in tutto. Ma i docenti devono mantenere il loro turno di lavoro. Si fa la DaD non più da casa, ma da scuola. Anche se le linee sono fragili, i collegamenti saltano, i bambini di 8 e 9 anni non capiscono. Finita l’ora e mezzo il docente resta a scuola. Nel tempo pieno c’è un’ora e mezza di collegamento al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio. I turni di lavoro devono essere mantenuti perché non si dica che i docenti sono lavativi.
L’aula vuota. Si preparano per le ore di lezioni a distanza. Aiutano le classi non in DaD che ancora resistono: i sopravvissuti che vengono ancora a scuola. L’importante è che si dica che la scuola non chiude. Dieci presidi reggiani hanno chiesto la possibilità di chiudere le scuole e attivare la DaD per tutta una scuola, ma il ministro Bianchi, di passaggio da Reggio, è stato categorico: la scuola non si chiude, senza ma e senza se. Chiedi: ma almeno le aule dove lavoriamo e c’erano i nostri alunni positivi, sono sanificate? Ci dovrebbero essere i bidelli a provvedere, ti risponde qualcuno, ma basta passare un dito sulla cattedra o guardare il pavimento per capire come vanno le cose. Il governo Draghi è stato chiaro: no, non si chiude. Se si ammalano i docenti? Si trovi una diplomando dell’Università in Scienze dell’Educazione, per andare avanti. O si moltiplichino come pani e pesci gli educatori delle cooperative pagate dai Comuni. Sempre che i Comuni abbiano soldi e ce li mettano. Sempre che i bambini diversamente abili non siano a casa anche loro. Se sono a casa, per gli educatori niente lavoro. Niente lavoro, niente soldi.
La pandemia ci sta facendo vedere come è rischiosa la privatizzazione della scuola che avviene anche nella nostra Regione attraverso le cooperative educative, che di fatto abbassano drasticamente il salario dei cosiddetti lavoratori della conoscenza, cioè anche di chi lavora nella scuola: quando va bene, gli educatori vengono pagati due terzi, la metà, forse di un docente della scuola pubblica italiana. Il costo del lavoro docente si abbassa ancora, nonostante i docenti italiani siano i meno pagati di Europa. Come gli investimenti sulla formazione. Il collegamento è finito. Cammino per la mia aula deserta. Lo scatolone con le mascherine, bottiglie di gel, ma gli alunni non ci sono. Come è triste questa scuola senza andare a scuola.
La pandemia poteva essere un’occasione per rilanciare la scuola pubblica italiana, per investirci sopra. Sono passati due anni dall’inizio della pandemia. Occasione persa. Anche dal governo Draghi. Quindici minuti di pausa tra una lezione e l’altra, poi si riprende. Maestro, ma facciamo la ricreazione? Maestro, scusa, posso andare nel bagno di casa mia a fare la pipì? La linea è debole, salta. Si aspettano le “saponette” miracolose per rafforzarle. Ecco, adesso la linea c’è. Saluto gli alunni. Faccio una domanda a M. Lei apre il microfono e mi risponde. In casa si sentono urla. Il fratellino più piccolo che urla. La mamma che lo rincorre. Un altro fratello in DaD non dal computer di casa, ma dal tablet o dallo smartphone. Non ci sono gli studenti? Basta che i docenti non si ammalino e vadano a scuola e si dice alle famiglie che la scuola è aperta.
Articolo pubblicato sulla di Sabato, 22 Gennaio 2022