Primissimi giorni di scuola alle prese con le misure anti-Covid e l’impazienza dei bambini di ritrovarsi e giocare. Ecco come in una elementare (Calerno) “sicurezza e paura del contagio sono diventate la prima materia di studio”
I lavori di ristrutturazione della scuola primaria, alla fine, non sono terminati in tempo utile per l’inizio dell’anno scolastico. Pazienza. Per le prime settimane di scuola ci accampiamo in sala civica. È uno stanzone diviso da una parete provvisoria in cartongesso: in un’aula la mia seconda, nell’altra una prima elementare. C’è spazio solo per i banchi: nessuna mensola, nessun armadio su cui appoggiare nulla di nulla. Arriva luce dalle finestre solo in una parete. La parete di cartongesso è sottile. Per non disturbarsi, occorre parlare sottovoce. Presto avremo aule migliori, ha promesso solennemente il sindaco alla cittadinanza il primo giorno di scuola. Non c’è motivo per non credergli. A ogni modo, anche tra tre settimane, la nostra classe pollaio rimarrà una classe pollaio come è sempre stata: 26 alunni, uno in più dello scorso anno, tra cui due disabili. Ma con un disabile, non si doveva arrivare al massimo a 20? Risposta mai pervenuta. Da anni e anni. Figurarsi in epoca di Covid. Eppure, da qualche parte, ci sono classi da 12/13 alunni. Dove? Dove ci sono aule grandi come sgabuzzini per le scarpe o poco più: esistono anche quelle, anche a Reggio Emilia. Scuola primaria Italo Calvino di Calerno, sulla via Emilia tra Parma e Reggio Emilia. Primissimi giorni di scuola di quello che si preannuncia uno degli anni scolastici più avventurosi del nuovo millennio. Posteggio l’auto in piazza. Mi dirigo a piedi verso la mia aula col mio zainetto alle spalle. Ci sono piccoli assembramenti di genitori in attesa, soprattutto mamme. Tutte più agitate degli alunni, con gli occhi gonfi di sonno, che sbadigliano di nascosto dietro le mascherine chirurgiche e salutano il maestro con un cenno o un mezzo miagolio. Azzolina aveva promesso di togliere le classi pollaio? No, Azzolina non ha tolto le classi pollaio, ha solo smesso di chiamarle classi pollaio e, senza sdoppiarle o diminuire il numero degli studenti per classe, ha dislocato le stesse classi pollaio in spazi più grandi. Tutta qui la vita, come la politica: un continuo gioco di parole. È come se in un palestra quaranta alunni diventassero venti. Un’illusione ottica. Un inganno bello e buono. Sulla pelle dei bambini e dei ragazzi: i più fragili. Chissà l’Azzolina che voto aveva in matematica alle scuole elementari! Ogni mattina i miei alunni e le mie alunne si dispongono in fila indiana con zaino e mascherina davanti alla soglia dell’aula. Dovevano essere fornite dalla scuola, le mascherine, ma anche in questo caso non sono arrivate a tutti in tempo utile; così è stato chiesto a ogni famiglia di fornirne due: una addosso, l’altra in una bustina trasparente Ikea sigillata da tenere nello zaino, di riserva. Spruzzo un po’ di gel sulle mani, l’alunno se le sfrega divertito e va a sedersi sorridente al banco: le punte delle quattro gambe devono coincidere con i bollini rossi incollati sul pavimento. Quest’anno la sicurezza e la paura del contagio sono diventate la prima materia di studio. È inevitabile. Ogni giorno si rispiegano le regole a cui attenersi scrupolosamente.Gli alunni ascoltano distratti, a casa i genitori gliele hanno ripetute mille volte: segno che gli incontri docenti-genitori dei giorni scorsi hanno funzionato. In realtà nessun alunno o alunna è preoccupato. Anzi, sono proprio sorridenti. Tutti. Per loro il Covid è una grande avventura. Un gioco o poco più. Ancora meglio: un gioco per adulti, da grandi. Nulla di più desiderabile! L’importante è che ci sia la scuola vera, in presenza, insieme. Non quella finta che i grandi chiamano scuola ma non lo è: la scuola senza andare a scuola, a distanza, al computer. Come ogni mattina cominciamo a rimboccarci le maniche e a lavorare. In classe nessuna LIM (lavagna interattiva multimediale) siamo tornati improvvisamente alle belle lavagne nere in ardesia di una volta. By by modernità esibita come fumo negli occhi ai genitori degli studenti. Però i docenti devono usare ognuno i propri gessi e poi riporli in un sacchetto. Manca anche il collegamento WI-FI, con tanti saluti al tanto celebrato registro elettronico che ci proiettava come missile nel futuro e nella modernità: per segnare gli assenti e mettere la firma sul registro elettronico, fortunatamente, oggi ho preso il mio PC portatile e fatto un hot-spot con l’iPhone. Tutto a mie spese, con materiale mio, non dello Stato, altro che bene comune. Se dovessi aspettare che funzioni la linea o il wi-fi della scuola, risulterebbero assenti tutti gli assenti e io probabilmente risulterei un furbetto del cartellino. Dopo un’oretta e mezza di lezione arrivano le domande che fanno di un anonimo giorno di scuola un vero giorno di scuola. “Quando facciamo merenda, maestro?”.”Oggi andiamo fuori a giocare?”. Facciamo una scoperta: insieme il tempo passa più veloce che da soli. È già l’ora della merenda. Dopo aver mangiato ognuno seduto al suo banco con tovagliette rigorosamente di carta perché su quelle di plastica il virus potrebbe sopravvivere fino a sette giorni, mentre con la carta dovrebbe finire stecchito dopo mezz’ora, finalmente si esce all’aria aperta. È una bella giornata di sole di settembre. La temperatura è mite, piacevole.Il cortile è diviso in spicchi come una grande torta verde: ogni classe ne ha a disposizione una fetta, piccola ma sufficiente per saltare e rincorrersi. Sempre con la mascherina, o finisci in punizione: seduto per cinque minuti. Ma dopo aver trascorso un’estate vedendo turisti accalcati nelle spiagge o a fare la movida e tifosi che si abbracciavano in piazza perché la loro squadra del cuore era stata promossa alla serie superiore il maestro non ha nessuna voglia di mettere in punizione un bambino di sei anni che rimane con la mascherina appesa a un solo orecchio o non riesce a trattenere la felicità di rivedersi e sfiora giocando un suo compagno di classe.
Articolo pubblicato su la il 20 Settembre 2020