Dal 2008 a oggi nelle scuole pubbliche italiane e nelle università, nonostante si siano succeduti governi diversi, c’è stato un inquietante tratto di continuità: la progressiva riduzione del personale e dei fondi dello Stato. Contemporaneamente, si parla sempre più spesso di scuole migliori e peggiori. Si fanno classifiche. Non è un caso, credo.
Tutto è partito con la famosa autonomia scolastica che, di fatto, ha iniziato a mettere in concorrenza scuole di ogni ordine e grado. La scuola si è cominciata a chiamare scuola azienda, anche se non è proprio come una azienda che produce oggetti. E studenti e loro famiglie clienti.
Le classifiche affascinano, ma quando si parla di classifiche scolastiche o fra scuole, bisognerebbe spiegare bene quali sono i criteri di valutazione. Lo star bene a scuola? La severità dei docenti? La quantità di compiti? Le opportunità di preparare a un lavoro? La creazione di cittadini responsabili?
La capacità di lavorare bene in gruppo? Visto che da grandi, poi, si andrà a vivere e a lavorare insieme agli altri? Il dibattito è sempre aperto. Da secoli. Ecco, senza scendere troppo nei particolari, vorrei avvertire tante famiglie, anche reggiane, che guardano a queste classifiche – locali, nazionali, internazionali, – di informarsi sempre bene sui criteri di valutazione. Ne scopriranno delle belle.
Per esempio, all’estero ci sono scuole migliori di quelle italiane, certo, ma spesso non sono pubbliche e per frequentarle ci vogliono dai 30 ai 50mila euro all’anno per studente.
Mentre le nostre scuole pubbliche, con tutti i loro difetti, dal punto di vista educativo e formativo restano tra le migliori del mondo. Inoltre: la maggior parte di queste classifiche sono realizzate da enti economici – tipo l’OCSE, -che sono a favore della privatizzazione dell’istruzione, anche quella di base; e qui, privatizzazione, non vuol dire gratuità come è scritto nella Costituzione per le scuole dell’obbligo, ma costo.
Ancora: capita, nella scuola, da tempo, una cosa strana: più una scuola è difficile e selettiva, ma soprattutto frequentata da figli di persone benestanti, e più è considerata una buona scuola.
Anche se non è sempre e necessariamente così. Insomma, la privatizzazione crescente della scuola e le classifiche tra scuole – per me negative, – sono piuttosto normali, oggi, in un regime di concorrenza.
Ma occorre stare molto attenti. Anche perché il marketing scolastico è ancora alle prime armi e si può inceppare in spiacevoli contrattempi.
Per esempio? Quella di cui si parla rischia di non essere più la scuola della Costituzione, specie del suo articolo 3. Competitività e concorrenza esasperate possono far male agli studenti – come ci dicono medici e psicologi da tempo, specie in età evolutiva. Ma possono far molto male anche alla scuola.
E’ solo di un anno fa la notizia, sul sito del MIUR, cioè del Ministero dell’Istruzione, di due licei, a Milano e a Roma: per convincere le famiglie a iscrivere i figli alle loro scuole, – sto parlando di rinomati Licei, di primi nelle classifiche dei licei della loro città e della loro regione, – oltre a pubblicare i sorprendenti dati che sarebbero stati raggiunti nello studio dai loro studenti, sostenevano di essere “scuole di qualità” anche perché, cito, “non è frequentata da studenti stranieri e disabili” e, cito, “sono frequentate da figli di “famiglie benestanti”. Poi ci chiediamo da dove nasce il razzismo.
Articolo pubblicato sulla del 16 Novembre 2019