Dare sempre di più ai ricchi e dare sempre di meno ai poveri: è questo che si impegna a fare la scuola italiana negli ultimi decenni. La conferma ulteriore arriva dalle periferie dei bambini, l’ultimo Atlante di Save the Children.
Emerge una scuola sempre più classista: bambini e adolescenti che sono nati e vivono e frequentano le scuole delle periferie delle nostre città, sono più svantaggiati di quelli che nascono nel centro. Non si può dire che sia una scoperta, se alcuni licei di Roma e di Milano, nello scorso anno scolastico, sul sito istituzionale del MIUR si vantavano per la loro eccellenza motivandola all’opinione pubblica non con risultati didattici conseguiti, ma con la non presenza nelle classi di studenti diversamente abili, con genitori di origine straniera e poveri. Proprio così.
Pare che la scuola sia una delle uniche istituzioni rimaste in cui la qualità, alla fin fine, viene giudicata di fronte all’utenza delle famiglie degli studenti con la mancanza, l’assenza, nelle classi, di compagni di banco poco raccomandabili o che rallenterebbero l’apprendimento scolastico dei nostri figli.
Chi sarebbero costoro? Sempre gli stessi: disabili, stranieri, poveri. Come se queste tre parole, se ci pensiamo bene, fossero tre sinonimi. Perciò non sorprende più di tanto gli addetti ai lavori se ora l’Atlante di Save the Children certifica che la povertà delle periferie, appunto, determini i destini e ci sia segregazione educativa, una forma di nuovo apartheid che comincia proprio dalla giovanissima età. Non è una novità venire a sapere che a Napoli, nascere e abitare al Vomero o a Posillipo, segna la vita.
Per sempre. Nelle zone più a rischio si apprende meno e si studia di meno. O non si studia. Sempre prima si rinuncia allo studio. Per cercare un lavoro. Più o meno in nero. Più o meno lecito. Il problema non riguarda il Sud. Ma è trasversale. Perché c’è un «sud», inteso come una sacca di povertà e ignoranza, non solo nelle periferie del Sud dell’Italia, ma anche nelle periferie delle città del Nord. E quel «sud» si chiama povertà. Con tanti saluti all’articolo 3 della Costituzione e alle cosiddette pari opportunità. Tra i bambini a rischio di alcuni quartieri di Palermo o nelle periferie genovesi di Cep di Prà, i poveri, le scuole e gli abbandoni scolastici si somigliano.
Eppure in Italia i fondi per l’istruzione e l’università sono sempre meno. Nel 2009 erano il 4,6% del PIL. Nel 2015 il 3,9%. E più si va avanti, più scendono. Fino a dove? Fino a quando? La scuola, a detta di tanti, almeno a parole, dovrebbe essere lo strumento numero uno per rimettere in moto l’ascensore sociale da troppo tempo bloccato. Cosa che non può certo fare nessun reddito di cittadinanza. Ma ciò avviene sempre meno. La verità è chiara: in tanti, nei fatti, stanno lavorando perché l’ascensore sociale sia definitivamente bloccato. A vita.
(il Manifesto – 17 Novembre 2018)