Giuseppe Caliceti racconta “Amira. Una storia senza confini”
e su “Filippo Maria, il terribile“: «I bulli si possono gestire»
«I bambini sono più avanti di noi ecco perché a scuola nessuno è straniero»
di Linda Magnoni (Gazzetta di Reggio – 3 Ottobre 2018)
Filippo Maria e Amira sono due ragazzini, ma hanno una cosa in comune: vengono entrambi dalla fantasia di Giuseppe Caliceti, maestro e autore reggiano, vincitore del premio di narrativa Elsa Morante-Isola di Arturo e responsabile del servizio di promozione della lettura e della scrittura creativa per il comune di Reggio. Entrambi i libri, pubblicati da Raffaello editore, sono freschi di stampa: “Filippo Maria, il terribile”, con le illustrazioni di Chiara Bordoni, ruota attorno alle marachelle del suo protagonista, il classico “monello” della letteratura; “Amira. Una storia senza confini” affronta, attraverso gli occhi di una quindicenne, il tema dello ius soli e di chi, pur nato e cresciuto nel nostro Paese, è ancora considerato uno straniero.
Nella sua esperienza di maestro, quanti e quali Filippo Maria ha incontrato?
«Abbastanza. Filippo Maria è un po’ il condensato dei tanti monelli conosciuti. Tende a comandare gli altri. Vuole farsi giustizia da solo. Usa spesso le mani. Ma ha sei anni. È anche divertente, astuto, candido. Se sostituisce i voti che prende con voti più alti, è solo per fare più felici i genitori. Se dice che il maestro è morto, è per fare uno scherzo ai compagni».
Qual è il significato di questo libro?
«Essenzialmente didattico. Inaugura una nuova collana di narrativa per la scuola primaria per rispondere a esigenze di bambini con difficoltà di lettura. Ma ricorda anche come i bulli siano sempre esistiti (un tempo, con meno allarmismo di oggi, si chiamavano monelli) e si possono gestire».
Di “Amira” invece cosa ci dice?
«Il romanzo si rifà a Lamiaa Zilaf, nata a Reggio da genitori marocchini. L’ho conosciuta nel 2011, al lancio della campagna nazionale di cittadinanza “L’Italia sono anch’io” insieme a Federico Amico e Graziano Delrio. Lei aveva 11 anni. Lesse una lettera in cui scriveva: “Il Marocco è il mio papà, l’Italia è la mia mamma”. Commosse tutti. Un anno dopo rilesse questa lettera in Parlamento».
Come ha costruito il romanzo?
«Ho immaginato che Lamiaa si chiamasse Amira e fosse una mia alunna. Ora è un’adolescente e abita in Francia. Il paradosso è che in Italia la chiamavano marocchina. E in Francia la chiamano italiana. Ma non le è mai stata riconosciuta la cittadinanza italiana».
Quali valori vuole mettere in risalto?
«È un piccolo inno alla condivisione, all’accoglienza, al rispetto. A scuola nessun bambino è straniero. La scuola è più avanti della società civile. Ogni bambino nasce cittadino, ce lo dicono l’Onu e l’Unicef. E in Italia? Fino a diciotto anni è considerato invisibile. È avvilente che ci siano persone e forze politiche che hanno paura dei bambini nati in Italia da genitori stranieri. Non si promuovono integrazione e sicurezza escludendo bambini e ragazzi, separandoli in cittadini e non cittadini alla nascita: è discriminante e razzista».
Che cosa insegnano i bambini, in questo senso?
«Tanto. Perché non vivono nel passato, ma nel presente e nel futuro. Per loro, chi parla di un mondo non multiculturale o ne ha paura, è vecchio e fuori dal tempo».